L'AUTOBUS DI STALIN,
L'ultima fatica di Antonio Pennacchi
UN ESTREMISTA DEL PENSIERO. FORSE È QUESTA LA DEFINIZIONE CHE MEGLIO PUÒ sintetizzare la natura dell’autore della raccolta di saggi (in forma di racconto?) titolata “L’autobus di Stalin”, al secolo Antonio Pennacchi, che ci offre una sorta di ardita, personale rivisitazione della realtà e si propone a chiare lettere di sfidare i luoghi comuni ed abbattere ogni pregiudiziale politically correct propinataci da un sistema mass-mediologico che sta lentamente (ma inesorabilmente) depauperando la nostra capacità di esercitare critica ed obiettività nell’analisi delle singole vicende. Vicende che ormai ci precipitano addosso ogni giorno, senza che nulla ci turbi più di tanto, in un mondo dove – lo sappiamo tutti – la realtà ha superato la fantasia. Con queste premesse, scrivere – o meglio: architettare – un libro capace d’essere innovativo (magari può anche non piacere, ma questo è un altro discorso) non appariva operazione agevole. Il buon Pennacchi c’è riuscito grazie ad un’ispirata interpretazione del concetto di “paradosso”, termine generalmente impiegato per designare un fatto o una dichiarazione inattesi, stravaganti, provocatori. La leva con cui sollevare il mondo, il grimaldello col quale dare l’assalto alla volgarità alla nostra intellighenzia è il paradosso di partenza, poi supportato da una logica di puro ragionamento. Parla l’autore di “worst cases”, termine mutuato da quel linguaggio informatico che sta ormai contaminando ogni campo: “casi estremi”, scelti come archetipi per dare sviluppo ad un discorso: situazioni-limite. Sull’orlo dell’abisso. Se la semplificazione, la banalizzazione, il qualunquismo stanno alla base di ogni logica mediatica, la dialettica argomentata dal dato storiografico regola il “logos” pennacchiano. E qui sta la novità del saggio de quo, che supporta tesi quali – udite, udite! - la necessità di riconsiderare il periodo staliniano. Un pensiero controcorrente, insomma, e per questo raro, che martella gli assiomi pedissequamente accettati dalle acritiche masse italiane e li collauda, senza lesinare i colpi. A volte sembra riuscire a smontarli, altre no, ma che importa? In Letteratura, l’importante è osare, rischiare, mettere in discussione, ragionare. La sua metodologia di pensiero costringe infatti il lettore a pensare, a porsi questioni nuove, e-duca nel senso latino di tirar fuori il meglio, giungendo alla logica conclusione che non è corretto usare due pesi e due misure, non è opportuno aggiustare la propria morale di riferimento a seconda delle situazioni contingenti e dunque della convenienza individuale (tecnica oggi diffusa in ogni settore della vita pubblica, e lo abbiamo visto in modo clamoroso in occasione dell’introduzione del demone-Euro, quando i commercianti hanno fatto a gara a chi era più scaltro e spregiudicato negli arrotondamenti). È stato eticamente giusto, legittimo speculare sul cambio Lira-Euro? No. Ma lo hanno fatto quasi tutti, e dunque possiamo concludere che in questo bislacco Paese sua Maestà l’Economia ha ucciso la Nobildonna Etica. Ma chi sono i mandanti? Rivolgersi ai bravi – in senso manzoniano – politicastri eletti da un popolo che probabilmente finisce per meritarli. Pennacchi argomenta il tutto servendosi dell’idioma delle tribù dell’Agro pontino (è una definizione di Umberto Croppi) cui orgogliosamente da sempre appartiene. Ripeto: secondo il mio modesto parere “L’autobus di Stalin” può anche non piacere a tutti, ma non era questo che interessava all’autore. Egli si proponeva di avviare delle riflessioni, insinuare il seme del dubbio, avanzare l’ipotesi che le cose non stiano veramente come ci è stato sempre raccontato dalle Istituzioni, della Scuola, dagli organi di informazione, dagli opinion-leader venduti all’editore più generoso (che fa rima con danaroso).
Antonio Pennacchi, L’autobus di Stalin, Vallecchi, pagg. 122, Euro 13,00
Fernando Bassoli
L'ultima fatica di Antonio Pennacchi
UN ESTREMISTA DEL PENSIERO. FORSE È QUESTA LA DEFINIZIONE CHE MEGLIO PUÒ sintetizzare la natura dell’autore della raccolta di saggi (in forma di racconto?) titolata “L’autobus di Stalin”, al secolo Antonio Pennacchi, che ci offre una sorta di ardita, personale rivisitazione della realtà e si propone a chiare lettere di sfidare i luoghi comuni ed abbattere ogni pregiudiziale politically correct propinataci da un sistema mass-mediologico che sta lentamente (ma inesorabilmente) depauperando la nostra capacità di esercitare critica ed obiettività nell’analisi delle singole vicende. Vicende che ormai ci precipitano addosso ogni giorno, senza che nulla ci turbi più di tanto, in un mondo dove – lo sappiamo tutti – la realtà ha superato la fantasia. Con queste premesse, scrivere – o meglio: architettare – un libro capace d’essere innovativo (magari può anche non piacere, ma questo è un altro discorso) non appariva operazione agevole. Il buon Pennacchi c’è riuscito grazie ad un’ispirata interpretazione del concetto di “paradosso”, termine generalmente impiegato per designare un fatto o una dichiarazione inattesi, stravaganti, provocatori. La leva con cui sollevare il mondo, il grimaldello col quale dare l’assalto alla volgarità alla nostra intellighenzia è il paradosso di partenza, poi supportato da una logica di puro ragionamento. Parla l’autore di “worst cases”, termine mutuato da quel linguaggio informatico che sta ormai contaminando ogni campo: “casi estremi”, scelti come archetipi per dare sviluppo ad un discorso: situazioni-limite. Sull’orlo dell’abisso. Se la semplificazione, la banalizzazione, il qualunquismo stanno alla base di ogni logica mediatica, la dialettica argomentata dal dato storiografico regola il “logos” pennacchiano. E qui sta la novità del saggio de quo, che supporta tesi quali – udite, udite! - la necessità di riconsiderare il periodo staliniano. Un pensiero controcorrente, insomma, e per questo raro, che martella gli assiomi pedissequamente accettati dalle acritiche masse italiane e li collauda, senza lesinare i colpi. A volte sembra riuscire a smontarli, altre no, ma che importa? In Letteratura, l’importante è osare, rischiare, mettere in discussione, ragionare. La sua metodologia di pensiero costringe infatti il lettore a pensare, a porsi questioni nuove, e-duca nel senso latino di tirar fuori il meglio, giungendo alla logica conclusione che non è corretto usare due pesi e due misure, non è opportuno aggiustare la propria morale di riferimento a seconda delle situazioni contingenti e dunque della convenienza individuale (tecnica oggi diffusa in ogni settore della vita pubblica, e lo abbiamo visto in modo clamoroso in occasione dell’introduzione del demone-Euro, quando i commercianti hanno fatto a gara a chi era più scaltro e spregiudicato negli arrotondamenti). È stato eticamente giusto, legittimo speculare sul cambio Lira-Euro? No. Ma lo hanno fatto quasi tutti, e dunque possiamo concludere che in questo bislacco Paese sua Maestà l’Economia ha ucciso la Nobildonna Etica. Ma chi sono i mandanti? Rivolgersi ai bravi – in senso manzoniano – politicastri eletti da un popolo che probabilmente finisce per meritarli. Pennacchi argomenta il tutto servendosi dell’idioma delle tribù dell’Agro pontino (è una definizione di Umberto Croppi) cui orgogliosamente da sempre appartiene. Ripeto: secondo il mio modesto parere “L’autobus di Stalin” può anche non piacere a tutti, ma non era questo che interessava all’autore. Egli si proponeva di avviare delle riflessioni, insinuare il seme del dubbio, avanzare l’ipotesi che le cose non stiano veramente come ci è stato sempre raccontato dalle Istituzioni, della Scuola, dagli organi di informazione, dagli opinion-leader venduti all’editore più generoso (che fa rima con danaroso).
Antonio Pennacchi, L’autobus di Stalin, Vallecchi, pagg. 122, Euro 13,00
Fernando Bassoli
2 Comments:
At 10:27 AM, Fernando Bassoli said…
anvedi Clemente cià pure il blogghe.
Bon, ti linko sul mio:
www.fernandobassoli.ilcannocchiale.it
salutiebaci
At 10:34 AM, Fernando Bassoli said…
guarda che ti faccio vedé:
http://www.chatlatina.net/component/option,com_jd-wp/Itemid,132/p,45/
Teribile eh?
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